Sentenza Cassazione – Assoluzione mons. L. Bonanno

SENTENZA

 

sul ricorso proposto da:

 

Bonanno Leonardo, n. San Giovanni in Fiore (Cs) 18/10/1947 

avverso la sentenza n. 2165/20 Corte di appello di Catanzaro del 07/12/2020.

 

letti gli atti, il ricorso e la sentenza impugnata; 

udita la relazione del consigliere Orlando Villoni; 

sentito il pubblico ministero in persona del Sostituto Procuratore generale Nicola Lettieri, che ha concluso per l’inammissibilità e in subordine per il rigetto; 

sentito per il ricorrente l’avv. Giuseppe Falcone, che ha insistito per l’accoglimento del ricorso

 

RITENUTO IN FATTO

 

  1. Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Catanzaro ha confermato quella emessa dal Tribunale di Cosenza il giorno 11 dicembre 2015 con cui Leonardo Bonanno è stato ritenuto colpevole del reato di rivelazione di segreti inerenti ad un procedimento penale (art. 379-bis cod. pen.) e condannato alla pena convertita di 5.000,00 di multa, per avere rivelato a due persone (gli avv. Maria Vittoria Bossio e Leo Morabito) il contenuto di una richiesta di consegna di documentazione formulata dalla locale Procura della Repubblica ai sensi dell’art. 248 cod. proc. pen., nell’ambito del procedimento instaurato nei confronti di don Franco Spadafora per appropriazione indebita e ricettazione di beni ecclesiastici, dopo avere dal Vescovo di Cosenza ricevuto l’incarico di procedere alla ricerca e alla predisposizione del documenti nella sua qualità di Vicario generale diocesano.

 

  1. Avverso la sentenza l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, articolato su due distinti atti, a firma dei suoi avvocati

 

Atto a firma dell’avv. Giuseppe Falcone

Primo motivo. Nullità dell’ordinanza di inammissibilità della richiesta di pubblica udienza resa il 25 novembre 2020 e della sentenza impugnata per violazione dell’art. 23, comma 6 del decreto-legge n. 149 del 2020, per essere stata erroneamente ed illegittimamente dichiarata inammissibile la richiesta di trattazione in presenza presentata dal difensore di fiducia il 18 novembre 2020, ben prima del cinque giorni previsti dalla norma, la cui decorrenza non può che essere fissata con riferimento alla data dell’udienza.

Violazione degli artt. 178 e segg. cod. proc. pen. posta a garanzia anche del principio di oralità e pubblicità del processo penale, del diritto di difesa e del giusto processo di cui agli artt. 24 e 11 Cost. e 6 CEDU per avere la Corte di appello trattato il processo in camera di consiglio nonostante la richiesta di trattazione in presenza avanzata dal difensore.

Motivi secondo e terzo. Si sostiene che, essendo stata fissata la camera di consiglio tra il sedicesimo ed il trentesimo giorno dell’entrata in vigore del decreto-legge, il termine di cinque giorni che la legge fa testualmente decorrere dall’entrata in vigore del decreto stesso, deve intendersi riferito all’udienza, in caso diverso prospettandosi una questione di incostituzionalità dello stesso art. 23, comma 6 per irragionevolezza della previsione e contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost.

Quarto motivo. Violazione dell’art. 379-bis cod. pen. per mancanza degli elementi costituitivi del reato.

Nella condotta ascritta all’imputato, che non ha mai partecipato né assistito ad alcun atto del procedimento, né mai ha rilasciato dichiarazioni al PM da questi secretate, non è configurabile il reato in esame, atteso che sono unicamente le condotte tipiche di partecipazione ed assistenza ad un atto o di rilascio delle dichiarazioni al PM a poter determinare le condizioni per la commissione del reato. Non sussisteva, inoltre, alcun segreto intorno all’indagini condotte nei confronti di Mons. Spadafora e lo stesso atto processuale considerato era intervenuto dopo più di tre anni rispetto all’iscrizione della notizia di reato avvenuta nel 2008, risultando come tale inutilizzabile; l’atto investigativo risultava, infine, del tutto atipico rispetto allo schema delineato dall’art. 248 cod. proc. pen.

Quinto motivo. Inutilizzabilità ex art. 191 cod. proc. pen. delle intercettazioni eseguite nei confronti dell’imputato, poiché il titolo del reato non consente tale strumento probatorio e delle dichiarazioni dallo stesso rese ai Carabinieri in data 10 marzo 2011, in quanto acquisite senza difensore, al pari di quelle successivamente rese al pubblico Ministero di contenuto confermativo delle prime per violazione ed erronea applicazione degli artt. 63, 178 e segg. cod. proc. pen. e 24 e 11 Cost.

Sesto motivo, Violazione ed erronea applicazione degli artt. 42 e 43 cod. pen. per mancanza del dolo del reato,

L’imputato in perfetta buona fede si è adoperato per reperire la documentazione che il Vescovo gli aveva chiesto di approntare e non ha mai avuto la volontà consapevole di rivelare notizie costituenti segreto sia perché la richiesta formulata dal pubblico Ministero non conteneva alcun elemento che le attribuisse il carattere della segretezza sia perché è mancato qualsiasi contatto con l’autorità giudiziaria e con la Polizia Giudiziaria che ha posto in essere l’atto di indagine.

L’art. 379-bis cod. pen. configura, infatti, un reato proprio, sicché presupposto per configurarne il dolo sussiste solo se l’atto processuale tipico sottostante è stato compiuto nei confronti dell’agente e cioè di quel soggetto che può assumere la veste di indagato o imputato per l’ufficialità dell’atto cui ha partecipato o ha assistito di persona.

Settimo motivo, Volazione di legge in relazione all’art. 131-bis cod. pen. per mancata applicazione della causa di non punibilità della speciale tenuità del fatto.

 

Atto a firma dell’avv. Franco Sammarco

Primo motivo. Violazione degli artt. 125,546, 192 e 533 cod. proc. pen. per errata applicazione della legge penale e travisamento della prova nella parte in cui l’imputato è stato ritenuto soggetto attivo del reato, colpevole di aver commesso una rivelazione indebita e di avere posto in essere una condotta concretamente offensiva.

L’unico soggetto che ha partecipato all’atto del procedimento quale rappresentante della Curia è stato, infatti, l’Arcivescovo di Cosenza, Mons. Nunnari, il solo abilitato ad interloquire con la Procura della Repubblica di Cosenza, mentre la delega da questi conferita ai fini dell’esecuzione della richiesta dell’ufficio giudiziario non poteva avere alcuna attitudine a qualificare l’imputato come autore del reato in addebito.

Quello di cui all’art. 379-bis cod. pen. è, del resto, un reato di pericolo effettivo, punibile solo se suscettibile di nocumento, da cui l’erronea valutazione e travisamento della prova da parte del giudici di merito che, rispetto ad un atto di dubbio segreto investigativo, hanno concluso per la concreta offensività della condotta ascritta all’imputato.

Secondo motivo. Violazione degli artt. 125, 546, 192 e 533 cod. proc. pen. per errata applicazione della legge penale e vizi congiunti di motivazione nella parte in cui è stata desunta la prova dell’elemento psicologico del reato dalla irrilevanza dell’ignoranza della norma impositiva del segreto investigativo.

L’erronea rappresentazione della realtà da parte dell’imputato non ha riguardato la conoscenza della norma impositiva dell’obbligo del segreto, costituente errore di diritto sul precetto penale mai allegato, ma ha riguardato la riconducibilità di quell’ordine di esibizione tra gli atti coperti da segreto investigativo nonché il carattere indebito della divulgazione.

Terzo motivo. Violazione dell’art. 131-bis cod. pen. in relazione alla esclusa applicabilità della causa di non punibilità per speciale tenuità del fatto.

 

CONSIDERATO IN DIRITTO

 

  1. Il ricorso è fondato e merita accoglimento.

 

  1. Sulla base delle sentenze dei gradi di merito del giudizio, la fattispecie concreta è ricostruibile nei termini che seguono.

 

Nell’ambito delle indagini condotte nei confronti di don Franco Spadafora per le ipotesi di reato di appropriazione indebita e ricettazione di beni ecclesiastici (artt. 646 e 648 cod. pen.), la Procura della Repubblica di Cosenza faceva recapitare, a mezzo di ufficiale di polizia giudiziaria, richiesta di consegna di documenti ai sensi dell’art. 248, comma 1, cod. proc. pen. all’Arcivescovo di Cosenza, Mons. Giovanni Nunnari,

Ricevuta la missiva, Mons. Nunnari dava incarico di reperire e predisporre i documenti richiesti al Vicario generale dell’Arcidiocesi, Mons. Leonardo Bonanno, che a sua volta si rivolgeva con lettera d’incarico scritta all’avv. Maria Vittoria Bossio e verbalmente all’avv. Leo Morabito, difensore di don Spadafora, per ricevere ausilio nella ricerca, mettendo così i legali a conoscenza dell’iniziativa dell’Ufficio requirente.

Tanto premesso, il Collegio osserva che la questione controversa e se risulti corretta l’affermazione del giudici di merito secondo cui, nell’optare per la linea di condotta sopra indicata, ricorrente abbia rivelato informazioni segrete relative al procedimento, acquisite in ragione del fatto di avere partecipato o assistito ad un atto del medesimo.

La tesi sostenuta dalla difesa è, infatti, che non avendo l’imputato mai partecipato né assistito ad alcun atto del procedimento né avendo mai rilasciato dichiarazioni al Pubblico Ministero e da questi secretate, non è configurabile a suo carico il reato in esame, atteso che sono unicamente le condotte tipiche di partecipazione ed assistenza ad un atto o di rilascio delle dichiarazioni al Pubblico Ministero a poter determinare le condizioni per la relativa consumazione.

La tesi accolta nelle sentenze di merito, in verità mai espressa in termini netti, è per contro che l’imputato ebbe propriamente a partecipare ad un atto del procedimento, restando di conseguenza tenuto all’obbligo di non divulgarne contenuto, dovendo “rimanere segreta la notizia che l’Ufficio di Procura, per accertare i fatti delittuosi, aveva emesso e notificato alla Curia la richiesta di documentazione” (pag. 4 sentenza impugnata).

La lettura fornita dai giudici di merito del dato normativo risente, tuttavia, di un equivoco di fondo, di cui oltre si dirà, che ne ha condizionato tutte le successive valutazioni.

Ai sensi dell’art. 379-bis cod. pen., salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque rivela indebitamente notizie segrete concernenti un procedimento penale, da lui apprese per avere partecipato o assistito ad un atto del procedimento stesso, è punito con la reclusione fino ad un anno. La stessa pena si applica alla persona che, dopo avere rilasciato dichiarazioni nel corso delle indagini preliminari, non osserva il divieto imposto dal pubblico ministero ai sensi dell’art. 391-quinquies del codice di procedura penale.

La previsione normativa contempla due distinte condotte di consumazione del reato:

  1. a) la prima, consistente nell’indebita rivelazione di notizie segrete, avente come indefettibili presupposti la partecipazione o l’assistenza ad un atto del procedimento, che assurgono, pertanto, al rango di elementi costitutivi dello illecito penale;
  2. b) la seconda, consistente nella violazione dell’obbligo al segreto imposto dal Pubblico Ministero ai sensi dell’art. 391-quinquies, che presuppone l’avvenuto rilascio di dichiarazioni all’organo requirente ai sensi degli artt. 362 363 cod. proc. pen.

Nel caso in esame rileva la prima di tali ipotesi, non risultando dalla sentenza impugnata che l’imputato fosse stato in precedenza mai chiamato a rendere dichiarazioni al pubblico Ministero prima di ricevere l’incarico dal Vescovo di ottemperare alla richiesta di documenti inoltrata dalla Procura della Repubblica di Cosenza.

La seconda ipotesi, nettamente definita nella sua materialità, non ha costituito oggetto di particolari difficoltà applicative, al punto che nessuna delle pur non numerose pronunce di questa Corte di legittimità sul tema risulta oggetto di massimazione (v. ad es. Sez. 6 n. 28095 del 14/09/2020, Tammam; Sez. 6, n. 27389 del 17/09/2020, Tortorici; Sez, 6 n. 35872 del 20/06/2019, Montoro).

Tornando, invece, alla prima ipotesi, il Collegio osserva che ai fini di una corretta interpretazione della prima parte dell’art. 379-bis cod. pen., va sicuramente disattesa la prospettazione difensiva secondo cui l’agente del reato può essere individuato soltanto in chi astrattamente è potenzialmente in grado di assumere la veste di indagato e/o imputato, in ragione del carattere ufficiale dell’atto cui ha partecipato o assistito di persona (sesto motivo di ricorso a firma dell’avv. Falcone).

All’accoglimento della tesi è, infatti, di ostacolo il dato letterale della legge secondo cui ‘chiunque’ può commettere le condotte incriminate dalla prima parte dell’articolo, a condizione che abbia partecipato o assistito ad un atto del procedimento, da cui la definizione dell’illecito come reato proprio in tal senso v. Sez. 6, n. 20105 del 16/02/2011, P.G. in proc. Spirolazzi, Rv. 250493).

Al fine, però, delimitare l’ambito di applicabilità della previsione in esame, occorre prendere le mosse dalle ragioni di ordine sistematico per cui essa è stata introdotta nel Codice penale.

L’art. 379-bis cod. pen. è stato, infatti, inserito con l’approvazione della legge 7 dicembre 2000 n. 397, mediante la quale è stato introdotto nell’ordinamento processuale il minisistema delle investigazioni difensive di cui agli artt. 391-bis e segg. cod. proc. pen.

Si trattava, dunque, di estendere il novero delle persone tenute al segreto Istruttorio in aggiunta a quelle che, in forza delle rispettive qualifiche di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, già lo erano in relazione agli atti processuali contemplati dall’art. 329 cod. proc. pen., la cui violazione è assistita dal precetti di cui all’art. 326 cod. pen.

L’art. 379-bis cod. pen. si apre, infatti, con la clausola di salvaguardia “Salvo che il fatto costituisca più grave reato e tutte le fattispecie di rivelazione dolosa di segreto d’ufficio sono punite in maniera più grave, con la sola eccezione della agevolazione di cui all’art. 326, comma 2, cod. pen., che implica, tuttavia, un atteggiamento soggettivo colposo.

Tanto premesso, i soggetti interessati dalla previsione incriminatrice in esame non possono che individuarsi in coloro che, pur non svolgendo alcuna funzione pubblicistica (artt. 357 e 358 cod. pen.) nell’ambito del procedimento penale, si trovino a partecipare o ad assistere alla formazione ovvero alla esecuzione di un atto processuale, sia esso promanante dall’autorità giudiziaria (pubblico ministero e giudice per le indagini preliminari) o da suoi delegati (polizia giudiziaria) e/o ausiliari (consulente, perito) sia lo stesso imputabile al difensore dell’indagato nell’ambito delle investigazioni difensive, con la debita eccezione, però, dei soggetti semplicemente sottoposti agli effetti dell’atto stesso, in quanto a vario titolo suoi destinatari.

Alla luce di tale ricostruzione sistematica del precetto, possono rispondere del reato in questione i soggetti privati che:

  1. a) per le ragioni più disparate (perché ad es. presenti di persona nell’ufficio del pubblico ministero o del giudice al momento della redazione dell’atto o per motivi di carattere professionale, come nel caso del consulente della difesa che partecipi ad accertamenti tecnici non ripetibili di cui all’art. 360 cod. proc. pen.) si trovino ad assistere alla formazione dell’atto promanante dall’autorità giudiziaria o dai soggetti a vario titolo da essa delegati ovvero ala relativa esecuzione (ad es. ad una perquisizione o ad un sequestro, v. in termini Sez. 6, n. 20105 del 16/02/2011, P.G. in proc. Spirolazzi, Rv. 250493);
  2. c) a vario titolo (ad es. in qualità di ausiliari durante le investigazioni difensive) partecipino alla formazione di atti processuali formati e riferibili al difensore dell’indagato;

in tutti casi a condizione che la rivelazione del relativo contenuto concerna notizie riservate e/o destinate a rimanere tali in quel momento.

Tuttavia, per quanto ampio possa essere il novero dei soggetti attivi del reato esso non potrà mai ricomprendere coloro che risultano semplicemente assoggettati all’esecuzione dell’atto stesso, poiché suoi destinatari in veste di indagati o in qualità di terzi che ne sopportano comunque gli effetti

Una diversa lettura della previsione normativa sortirebbe, infatti, effetti paradossali.

In capo al soggetto sottoposto a perquisizione personale o domiciliare durante le indagini preliminari sorgerebbe ad esempio l’obbligo di non divulgare ad alcuno l’avvenuta esecuzione della misura, fino al punto di essergli impedito di rivolgersi finanche ad un difensore al fine di tutelare la propria posizione processuale nell’ambito del procedimento; allo stesso modo al soggetto fatto segno di richiesta di consegna di documentazione nell’ambito di qualunque organizzazione complessa risulterebbe addirittura preclusa la possibilità di delegare a terzi il compito di ottemperare alla richiesta stessa, comportando il conferimento della delega la necessaria condivisione del relativo contenuto con soggetto incaricato

S’impone, pertanto, ad avviso del Collegio un’interpretazione sistematicamente e logicamente circoscritta della prima parte dell’art. 379-bis cod. pen. sotto il profilo sia soggettivo che oggettivo, interpretazione declinabile nel seguente principio di diritto

L’art. 379-bis cod. pen., prima ipotesi, trova applicazione esclusivamente nel confronti delle persone che, in assenza delle relative qualifiche funzionali di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, non sono già tenute all’obbligo del segreto di cui all’art. 329 cod. proc. pen., la cui violazione trova sanzione nell’art. 326 cod. pen.; partecipazione ed assistenza attengono alle fasi di formazione o di messa in esecuzione dell’atto processuale – promanante tanto dall’autorità giudiziaria o da suoi delegati ed ausiliari quanto dal difensore nell’ambito delle indagini difensive – ma non a quelle della ricezione dell’atto stesso o di soggezione al relativi effetti.

Sulla base di tale delimitazione dell’ambito applicativo soggettivo e oggettivo del precetto, si deve riconoscere che il ricorrente non solo non ha partecipato né assistito alla formazione dell’atto processuale di cui all’imputazione, individuabile in senso proprio nella materiale predisposizione da parte dell’ufficio del Pubblico Ministero della richiesta di documenti di cui all’art. 284, comma 1, cod. proc. pen, ma neanche a quella della relativa ricezione, esauritasi nella consegna ad opera di un ufficiale di polizia giudiziaria al formale destinatario, indicato in persona dell’Arcivescovo di Cosenza, Mons. Nunnari.

  1. In accoglimento, anche se per ragioni in parte diverse, della principale censura formulata con il ricorso, la sentenza impugnata va, dunque, annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste; tutte le altre questioni restano assorbite dalla natura della pronuncia.

 

P.Q. M.

 

annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.

 

Così deciso, 5 novembre 2021

 

 

Sentenza della Cassazione _ Assoluzione mons. L. Bonanno