Omelia San Francesco di Paola – Cittadella del Capo
Carissimi,
nei ritmi incalzanti e frenetici del mese di agosto, ci ritroviamo a celebrare l’Eucaristia nella ricorrenza della festa di San Francesco di Paola, amato e venerato dai Calabresi, dalla comunità diocesana, da questa bella comunità parrocchiale di Cittadella del Capo. Al ringraziamento che rivolgo al vostro Parroco don Giovanni, si uniscono i ringraziamenti per tutti voi, per gli anziani e i malati in comunione spirituale, per le persone a voi care, per il Sindaco e le autorità qui presenti.
San Francesco di Paola è un faro di luce che illumina le nostre vite, favorendo, con il suo esempio e la sua straordinaria testimonianza di santità, l’incontro con il Signore, che questa sera vogliamo celebrare nell’ascolto della Sua Parola e nella condivisione del Pane della Vita. Sono questi i doni più preziosi custoditi, accolti e celebrati dal nostro Santo paolano e che hanno reso la sua vita trasparenza della grazia celeste. La sua esistenza è avvolta in un’aurea di soprannaturale dalla nascita fino alla morte. Questo straordinario taumaturgo del secolo XV è una delle figure più rappresentative e più popolari della Chiesa cattolica. Cosa possiamo trarre dalla sua vita? Alla luce della Parola di Dio di questa XX domenica del tempo ordinario, possiamo accogliere anzitutto il messaggio che esprime la dedizione di San Francesco per la giustizia e per i poveri. Il profeta Isaia, infatti, rivolge al popolo d’Israele un accorato invito alla pratica della giustizia e del diritto. È un invito pressante, e dirompente perché esige una risposta da parte degli uomini che vogliono accogliere la salvezza di Dio. Essa passa attraverso le strette e anguste vie dell’umanità, soprattutto di quella porzione di umanità ferita e bisognosa di soccorso, oppressa dalle ingiustizie che si dilagano senza freno. Sono parole profetiche, utili a leggere il presente con gli occhi di Dio. Quante ingiustizie dilagano ai giorni nostri, quante se ne consumano nei nostri Paesi e nei territori limitrofi: ingiustizie sociali, morali, economiche, umane! Da qui sorge l’accorato appello del profeta alla pratica della giustizia. Sarebbe cosa utile per noi cristiani passare da una giustizia formale o semplicemente annunciata, ad una giustizia che trovi corrispondenza nelle nostre azioni, nelle scelte che intendiamo fare, negli obiettivi che vogliamo raggiungere, comunitariamente e individualmente. Sentiamo l’urgenza di costruire comunità che siano armonicamente strutturate sull’annuncio e sulla pratica della giustizia. Anche l’immagine di Dio dovrebbe essere riscattata dall’idea di un divino giustiziere, il quale miete vittime e punisce coloro che sono caduti in errore. La nostra giustizia dovrebbe derivare da una realtà che tutti condividiamo: quella di essere stati “giustificati”, cioè resi giusti non per meriti acquisiti e per nostra volontà, ma per immeritata grazia ricevuta. In questa condizione, nessuno può arrogarsi il diritto di prevalere sull’altro perché a tutti è riconosciuto lo stesso valore. San Francesco di Paola ha offerto una chiara testimonianza di vita giusta e ha saputo difendere i diritti dei più deboli contro le angherie dei potenti. Il religioso lasciò la cittadina di Paola e fu a Napoli nel 1481. Davanti al Re che lo voleva platealmente tentare con un vassoio pieno di monete d’oro, offerte per la costruzione di un convento, San Francesco rifiuta. L’uomo di Dio prese una moneta, la spezzò e dalla stessa ne uscì del sangue. Un chiaro messaggio per la politica economica malsana del sovrano che lo ospitava, incentrata sullo sfruttamento dei suoi poveri sudditi.
La potente intercessione del Santo Paolano ci porti a considerare le carni deboli dei poveri e dei bisognosi, come le membra sofferenti di Cristo che ci chiedono di essere servite, onorate, difese, accolte attraverso la nostra azione caritativa che si modella e si plasma sull’esempio di Gesù, il quale è “venuto per servire e non per essere servito”. Una chiesa serva dell’uomo e di Dio è il sogno che vogliamo realizzare attraverso la collaborazione fattiva di tutti i credenti. Sentiamoci impegnati, ciascuno con la sua vocazione specifica, a collaborare per stabilire un ordine nuovo di fraternità e di condivisione, dove l’unica norma sia quella della carità. La casa di Dio, ci ricorda sempre Isaia, ha una sola regola: la carità! Ce lo ricorda San Francesco: guardando al suo cuore non possiamo fare a meno di contemplare quelle otto lettere che compongono la scritta: CHARITAS! In essa è racchiuso il mistero di Dio, in essa si svela il senso della nostra vita.
Nella casa di Dio nessuno può sentirsi straniero perché tutti siamo suoi figli.
E se le norme della Legge mosaica possono generare una durezza di cuore tale da poter respingere la novità del Vangelo – come ci riferisce San Paolo nella seconda lettura – quella della carità è l’unica regola che genera apertura incondizionata e risposta alla chiamata di Dio.
Quella di Gesù è la testimonianza di una vita da missionario che apre il suo cuore all’incontro universale con ogni uomo e donna, senza considerarne le etichette esteriori di una catalogazione che tradisce l’intima identità della persona. Egli si spinge in territori stranieri, quelli di Tiro e di Sidone, popoli pagani, poco acculturati e lontani dalla legge di Mosè.
Nei brani evangelici sono offerte numerose testimonianze di incontri individuali di cui Gesù è protagonista.
La pagina del Vangelo di Matteo appena ascoltato descrive l’incontro con una donna, di cui non conosciamo il volto, il nome e l’appartenenza sociale. Sappiamo la sua origine: è una donna Cananea, figlia di una porzione di popolo giudaico che è in lite con i puri di Israele per aver costruito un Tempio, parallelo a quello di Gerusalemme, sul monte Garizìm. Eppure, in Gesù non c’è ombra di pregiudizio: lascia che sia la donna a precederlo nella parola, lascia che sia libera di poter esprimere il suo dolore, la sua sofferenza incompresa, il suo disagio sociale. La donna non ha mai pensato di rivolgere a Gesù un discorso articolato, una teologia elevata, ma ha il coraggio di riconoscere la sua natura fragile e povera. E questo lo manifesta nella sua preghiera: “Pietà di me, Signore Figlio di Davide!”. In questa preghiera ha il coraggio di riconoscere l’identità del Messia in Gesù e di rivela la sua intima natura: una povertà che grida bisogno di accoglienza e necessità di ascolto. La sua grande fede sta nel credere che nel cuore di Dio non ci sono figli e figliastri. Dio prova dolore e gioia per tutti e senza preferenze. Per questo invoca con insistenza il desiderio di essere esaudita. Una fede grande, quella della Cananea, che si lascia portare con mano da un Gesù che apparentemente sembra disinteressarsi della sua storia.
Il silenzio di Dio e il suo apparente disinteresse, sono lo spazio e il metodo che utilizza affinché l’uomo progressivamente converta il suo cuore alla grazia. La donna non desiste dinanzi al tentativo della resa.
I discepoli non riescono a comprendere il dinamismo della conversione che Gesù stava innescando nel cuore della donna e pensano di sbrigarsi in fretta, non sopportando il suo persistente e faticoso processo di conversione. Anche per noi si presenta spesso il rischio di fare le cose con fretta e superficialità perché vogliamo evitare un coinvolgimento nella vita delle persone che richiede fatica, tempo da dedicare, ascolto paziente. Gesù non evita il coinvolgimento e rischia di fare una magra figura apparendo agli occhi di tutti infastidito dalla presenza della Cananea. Eppure, è grande il desiderio di conoscere il suo cuore. Lì si realizza l’incontro con la misericordia: la preghiera audace e coraggiosa della donna viene esaudita perché grande è la sua fede. Gesù loda la sua audacia e accorda il suo desiderio di vedersi esaudita nella guarigione del figlio indemoniato.
Una Parola forte per la nostra vita che accogliamo sorretti dall’esempio di San Francesco di Paola, il quale ci invita alla preghiera, alla condivisione, all’amore del Signore, alla povertà evangelica.
Come San Francesco e la donna del Vangelo, impariamo ad offrire la nostra miseria, gradiamo al Signore la nostra povertà, ampliamo gli spazi della carità senza porre limiti, imitiamo la loro eroica fede che ha ottenuto il premio delle grazie e delle consolazioni celesti.
Affidiamo al Santo Paolano le gioie, le fatiche e le speranze di questa comunità in festa, della nostra Diocesi, della Chiesa tutta, perché intercedendo presso Dio ci doni di ottenere da Lui, abbondanti e celesti doni. A voi consegno, come augurio, le ultime parole del testamento del Santo: “Nessuna cosa è il tesoro che io vi lascio: amatevi l’un l’altro e fate tutte le vostre cose in Carità”. Amen