Venerdì Santo 2024

29-03-2024

Omelia Venerdì Santo 2024
Carissimi
abbiamo seguito il Signore in questi giorni nel suo cammino verso il Golgota. Mentre saliamo sul monte della croce, avvertiamo nel cuore sentimenti di sofferenza e sensazioni di paura e angoscia. La passione di Gesù secondo il Vangelo di Giovanni appena ascoltata getta luce sui miseri e le miserie umane. Attraverso il racconto evangelico vogliamo leggere e interpretare la vicenda dei sofferenti di questo mondo, i novelli crocifissi, quelli che nessuno ha accompagnato, voluto e amato. Sulla Via Crucis di Gesù c’è spazio per tutti. Ogni volto, ogni storia, ogni vita, è frutto della sua Passione. Quel breve e tormentato tragitto compiuto dal Nazareno verso il Golgota fa uscire ciascuno di noi dal suo piccolo mondo, dall’abitudine di pensare solo a sé stessi, di considerare esclusivamente i propri problemi. Domandiamoci cosa ci spinge a guardare Gesù crocifisso. Egli non ha un volto da mostrarci; quel sofferente – afferma il profeta – “non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori, che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia: era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima”. In questo momento ci viene chiesto di guardare, anzi di contemplare con ulteriore slancio di fede, il crocifisso. Guardare al crocifisso, che è collocato al centro di ogni nostra chiesa o che portiamo appeso al petto, per tanti è diventata una mera abitudine. Tuttavia, sappiamo che nel crocifisso si trova il senso della fede cristiana e della nostra vita. Non può esistere uno spazio sacro che sia privo del crocifisso. Nel nostro cuore sperimentiamo un terribile paradosso: colui che è stato crocifisso “non ha l’apparenza e la bellezza per attirare il nostro sguardo”, eppure Gesù dice: “Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). La croce attira il nostro sguardo, sebbene non ci sa naturalezza in tale gesto. Davanti a uno che soffre, si fugge, non si sa cosa fare né tantomeno si sa cosa dire. Il dolore, senza la fede, incute solo paura e rappresenta un’inutile e riluttante realtà. L’odierna società ha generato un pensiero che riduce quasi al nulla il senso della morte, ispirandoci la comoda soluzione di gettare nel dimenticatoio la dolorosa realtà della sofferenza e l’inevitabile incontro dell’uomo con sorella morte. La nostra cultura non mette in luce la certezza e l’evidenza della morte. Si fanno i conti solo con le cose belle da vedere, imponendo il criterio dell’esteriorità, costi quel che costi. Assistiamo ad un proliferarsi di centri di bellezza, a discapito di una sana inquietudine che noi cristiani dovremmo nutrire per nutrire la nostra interiorità. Lasciamoci provocare dalla contemplazione scomoda, ma salutare di Gesù crocifisso, senza paura di turbare i nostri sguardi e le nostre coscienze, anestetizzate da una bellezza fugace e inconsistente. Noi fissiamo i nostri occhi su di Lui, siamo accanto a Lui con l’amore e la fedeltà della madre Addolorata e con lo slancio di compassionevole tenerezza del discepolo amato. Comprendiamo il suo amore del tutto gratuito, offerto a noi che non ne saremo mai degni per la nostra poca fede e per il nostro peccato. Come Maria, la madre, e Giovanni, il discepolo che egli amava, siamo tornati qui questa sera davanti a lui. Il suo volto sofferente ci insegna la compassione, addolcisce le durezze del nostro cuore, ci trasmette una più profonda convinzione del dolore del mondo, ci rende prossimi ai tanti poveri e innocenti che soffrono e muoiono, ci rende cirenei per sostenere le croci che la vita mette sulle spalle di tanti con il peso del giudizio, dell’ingiuria, dell’orgoglio, della mancanza di carità. Cari amici, il male nel mondo è forte, e la morte è l’espressione più violenta e ingiusta. In questi tempi incerti e burrascosi constatiamo la violenza delle guerre che stanno portando via tanta gente innocente. Dovremmo essere più attenti alla forza del male, che penetra e agisce nella storia e nei cuori. Questa sera, guardando la croce di Gesù, i nostri occhi si aprono sulle croci del mondo e il suo corpo sofferente e morente ci distoglie da noi stessi per un po’ a ci aiuta a guardare oltre. La tentazione più grande è quella di assumere la mentalità dei soldati beffardi e del ladrone che inveiscono contro Gesù: “Se sei Figlio di Dio, scendi dalla croce”. Sant’Agostino, commentando tale espressione, esclama in uno dei sermoni più significativi che i suoi scritti ci trasmettono: “Non scendere dalla croce, non ascoltare il grido beffardo degli uomini privi di fede. Se tu scendessi dalla croce, noi saremmo perduti”. Siamo qui, silenziosi e tremanti, come la Madre Addolorata, per dire sommessamente: Gesù, resta lì, non scendere dalla croce; se tu lo facessi noi saremmo perduti. Resta inchiodato, Maestro di Nazareth, a quel patibolo che ci insegna l’arte di amare. Resta attaccato a quel legno glorioso per insegnarci a perdonare i nostri nemici. Resta fermo, sulla cattedra della croce, per insegnarci ad amare come Tu ci ami. Vogliamo contemplare nel silenzio orante le parole che il Maestro ha pronunciato sulla croce, prima di abbandonarsi nelle tenere braccia del Padre: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Esse ci insegnano che nel dolore l’unica vera forza che può penetrare persino la morte è la preghiera. Sotto la croce, ci viene consegnato il testamento dell’unità. Gli uomini tentano di lacerare quell’unità per cui Gesù aveva vissuto, significativamente rappresentata dalla sua veste indivisa, cucita tutta di un pezzo. Così siano le nostre famiglie, i luoghi di lavoro, le comunità parrocchiali: “tutte d’un pezzo”, come il suo amore e l’unità che Egli ha testimoniato fino alla fine. Sotto la croce nasce una nuova famiglia, la famiglia di Dio, unita dal suo amore per noi. Egli da una parte ci affida alla Chiesa, nostra madre, dall’altra chiede ad ognuno di noi di farsi carico di questa madre, di amarla, custodirla, proteggerla, prenderla con noi: “Gesù, vedendo la Madre e accanto a sé il discepolo che egli amava, disse alla madre: Donna, ecco tuo figlio. Poi disse al discepolo: Ecco tua madre. E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé”. Nel grande silenzio che consegue alle ultime luci di quel venerdì, Maria, da sola, custodisce la fiducia in Dio e attende il compimento della sua promessa di vita e salvezza. È per questo che ci rivolgiamo a lei, al suo abbraccio di madre, al suo cuore trafitto, perché ci insegni questa ad attendere con fede e a sperare con certezza. A lei consegniamo noi stessi, i nostri cari, i tanti morti di questi giorni, le guerre in tanti parti del mondo, la sofferenza dei bambini, la persecuzione dei cristiani, e tutte le croci che attendono il giorno della risurrezione. La croce di Gesù, unica speranza, è il segno di un uomo che non ha voluto salvare sé stesso. La croce è la sua spada, il trofeo della vittoria. “Solo l’amore è forte come la morte”, leggiamo nel Cantico dei Cantici. L’amore di un crocifisso ha permesso a Dio di sconfiggere la morte. La sua passione, pertanto, ci appassiona: tutto ciò che sogniamo, pensiamo di compiere nel bene, lo vogliamo vivere con la stessa intensità e la stessa fiducia, di chi ha vissuto la Passione per passione dell’uomo, per il solo bene di salvarlo, a prezzo della sua stessa vita. Rimaniamo assieme alle donne e al discepolo che Gesù amava sotto la croce, per imparare la compassione e vivere da appassionati. Il mondo ha bisogno di donne e uomini che non lasciano solo chi soffre, ha bisogno di persone miti e umili, che lottano contro il male, con il bene e non con la violenza della spada. Abbandoniamo tutte quelle armi che feriscono gli altri, fossero sentimenti, pensieri, parole, gesti. Oggi dalla croce il Signore ci guarda con la tenerezza di un uomo dolente e ci chiede di stare con lui e di imitarlo, perché la vita sia migliore e il mondo più umano. Non stacchiamo i nostri occhi da lui per poter vivere la gratuità dell’amore con il quale Gesù custodisce e salva la nostra vita. Amen.