La vita del Servo di Dio Agostino Ernesto Castrillo può essere additata all’imitazione dei cristiani, perché incarnò in modo esemplare lo spirito delle Beatitudini. Questo fatto di grazia e di conquista personale risalta da un esame sommario dei tre servizi che egli visse ed espletò in grande umiltà e nella piena donazione di sé:
- Parroco,
- Ministro provinciale,
- Vescovo
Parroco
Mons. Agostino Castrillo diede alla parrocchia di Gesù e Maria in Foggia, che guidò per 10 anni, un’anima profeticamente attuale e particolarmente francescana, che possono essere riassunte in cinque punti:
- a. La povertà personale
A Foggia, per tre anni, non ebbe una casa parrocchiale dove potesse pernottare, ma risiedette nel periferico convento di San Pasquale. Pur contandoamici e benefattori che si sarebbero prestati volentieri, se egli lo avesse chiesto, per procurargli una casa e le indispensabili infrastrutture per le attività parrocchiali, tuttavia non ricorse mai al potere politico ed economico per ottenere finanziamenti con cui modificare la sua situazione di grande povertà.
- I poveri
La sagrestia il convento erano frequentate assiduamente da poveri di ogni tipo. Aveva con essi una familiarità fatta di rispetto e di affetto; e anche quando era nell’impossibilità di soddisfare le loro richieste, non li abbandonava. Non si vergognava di salire, in loro compagnia, le scale degli uffici statali e delle aule dei tribunali per avallare con la sua “autorevole referenza” i loro buoni diritti.
- I malati
Era la categoria umana che lo metteva in crisi di coscienza e alla quale, perciò, si sforzava di dare il massimo delle cure e del tempo a sua disposizione. Se poi i malati erano anche poveri, allora mobilitava attorno ad essi i suoi amici medici e benefattori, che non gli negavano mai di cui necessitava.
- L’apostolato
Fece della strada e della famiglia i luoghi preferiti per le proposte del messaggio cristiano nello stile del Poverello d’Assisi.
Quando predicava in chiesa, e lo faceva frequentemente approfittando di tutte le occasioni liete e tristi, la sua predica non era un “assolo” di circostanza, ma quasi un dialogare con i fedeli. Le sue omelie, che nascevano dalla liturgia della Parola e dei Sacramenti, si sviluppavano sulla traccia ideale di una catechesi permanente.
- L’Eucaristia
Nella sua parrocchia veva costituito delle presenze continue che si avvicendavano nelle ore dell’adorazione continua, e soprattutto aveva creato una costante atmosfera mistica mediante l’esigenza severa del più assoluto silenzio, la pulizia più scrupolosa e un arredo liturgico elaborato dagli artisti della parrocchia. Egli che evitava ogni agiatezza nel convento e nei locali parrocchiali, voleva che la chiesa fosse una reggia per Gesù Sacramentato. Si adoperò sempre per trasfondere nel tessuto umano parrocchiale un’anima eucaristica; e questo spiega perché ogni giorno, mentre lui e qualche altro collaboratore recavano la Comunione alle case dei malati e degli anziani impediti, un altro sacerdote rimaneva in chiesa per essere disponibile a tutte le ore ad ogni richiesta dei sacramenti della Riconciliazione e dell’Eucaristia.
Ministro provinciale
Questa carica, che gli fu affidata per ben quattro volte: due elezioni nella provincia minoritica di Puglia e Molise e tre nomine nella provincia salernitano-lucana. Trovò le due provincie religiose, di cui fu ministro provinciale, materialmente e moralmente lacerate e divise. Egli, quindi, fu il ministro che si impegnò con tutte le sue forze per l’unificazione e la pacificazione degli animi sia della provincia salernitana che di quella lucana, e si adoperò instancabilmente per ricostruire il tessuto organico delle due fraternità provinciali smorzando, con intelletto d’amore, i focolai autonomistici e facendo leva soprattutto sui giovani.
Trovandosi a ricoprire tale carica in periodi difficilissimi, fu attento a discernere i segni dei tempi e ad adeguarsi ai mutamenti sociali e morali che venivano maturando dopo la caduta del Fascismo e la sconfitta dell’Italia a seguito della seconda guerra mondiale. Seppe leggere con acume nei segni dei tempi e agì di conseguenza. Cosa inusitata e audace per quei tempi, avviò parecchi sacerdoti novelli alle Università statali, e non ebbe timore di concedere per un anno al regista ateo Roberto Rossellini di servirsi dei chierici di Salerno quali attori del film “S. Francesco, giullare di Dio”.
Governare significava per lui esercitare la paternità spirituale. Non si servì mai del vigore dell’autorità o del rigore della legge per richiamare al dovere un suddito o una comunità che, secondo lui, lasciavano a desiderare; ma intensificava con essi i suoi rapporti epistolari, gli incontri personali, le visite non preavvertite. Si interessava alla vita dei conventi e dei singoli frati, condividendone di continuo i loro problemi, non solo in occasione della “santa visita” annuale, ma intrattenendo con essi una fitta corrispondenza epistolare. Questo spiega perché qualche volta alla stessa persona indirizzò fino a cinque lettere nello stesso mese. Quando nel 1940 fu eletto la prima volta ministro provinciale, nella congregazione capitolare fece presente al definitorio l’incompatibilità tra il suo ufficio di parroco e la nuova carica. Il definitorio non accettò le sue dimissioni e lo autorizzò a proseguire nel servizio parrocchiale, anche perché era questa la volontà del vescovo di Foggia, e a risiedere nel nuovo conventino di Gesù e Maria, anziché in quello di S. Pasquale, che era la sede del ministro provinciale. Fu mentre era ministro provinciale che la città di Foggia e soprattutto le abitazioni della parrocchia, nel cui ambito si trovava la stazione ferroviaria, furono bersaglio quasi quotidiano dei bombardamenti degli anglo-americani, furono ridotte a cumuli di macerie in quei tragici mesi, chi poteva sfollava rifugiandosi sulle montagne. P. Egidio Costantini ricorda quei mesi in questi termini: “In quei giorni tristi, quasi senza riposo, accorreva, aiutato da me e da p. Odorico Tempesta, nei luoghi del disastro ad estrarre dalle macerie le vittime maciullate; tra le corsie degli ospedali per assistere e consolare”. E Tommaso Finocchiello: “Durante i bombardamenti p. Agostino raccoglieva i morti e i feriti che erano in terra. Si recava nei rifugi antiaerei per incoraggiare e pregare insieme con la folla e le sue parole calmavano le anime più stravolte”. P. Agostino stesso ricorda quegli anni come anni di una dedizione unica, ma sempre sotto l’assistenza di Dio e il conforto del popolo, come attesta in una lettera a p. Egidio Costantino, suo stretto collaboratore. “Ricordi? Nei primissimi tempi della nostra faticosa esperienza parrocchiale irta di difficoltà morali e materiali, ma pur gioconda nel travaglio quotidiano, affrontato con irresistibile tenacia, anche quando la carne, gemendo, minacciava di sopraffarre lo spirito. E si vinceva, perché la grazia di Dio era con noi e, per incoraggiarci, intorno a noi vi era sempre una folla di popolo devoto”. P. Agostino scrisse le pagine più luminose del suo eroismo caritativo, rimase sul posto e sporcandosi di sangue la tonaca per salvare i feriti ed estrarre i morti dalle macerie.
Vescovo
Quando arriva in diocesi, a San Marco Argentano (il 3 gennaio 1954), il suo fisico è già inesorabilmente compromesso dal male che lo avrebbe portato alla morte: un tumore ai polmoni. Nonostante questo per un anno intero non si risparmiò nel visitare quasi tutti i paesi della diocesi. Si sottopose ad un massacrante “tour de force” senza orario, spalancando le porte e le braccia a chicchessia, preti e laici, signori e popolani, ricchi e poveri. Fu così che il clero diocesano e quello regolare impararono ad amarlo e a frequentarlo con assiduità. La Curia divenne la “centrale della carità” in ogni forma e a tutti i livelli, da quelle più elementari delle elargizioni pecuniarie ai poveri e ai bisognosi, a quelle più impegnative del consiglio, del conforto, della solidarietà con i drammi dei parroci, operanti in estreme condizioni di difficoltà. Tra la fine di dicembre e l’inizio del nuovo anno è costretto all’immobilità. Per dieci mesi il suo letto diviene altare, sul quale offre il quotidiano olocausto d’una sofferenza indescrivibile, e cattedra da dove edifica clero e popolo che vi si recavano quasi in pellegrinaggio. Si racconta che da giovane aveva chiesto di essere immolato da Cristo nella partecipazione alle sue sofferenze (fece il voto di vittima). Il Signore lo accontentò, facendogli governare la diocesi dal letto della croce accettata e offerta nell’Eucaristia, mescolando la sua sofferenza con quella della Vittima divina. Possiamo affermare con certezza – come testimoniò il suo segretario e nipote p. Paolino Castrillo – che ogni giorno, assieme a Gesù, saliva e si coricava sulla medesima croce. Ma, da vero francescano, p. Agostino affronta la sofferenza con letizia, come appare dalla testimonianza del suo medico curante, il Dott. Antonio Filippelli: “Quando arrivò a San Marco A. mi apparve un individuo normale, anzi un frate veramente francescano. Poi cadde ammalato ed ebbe bisogno di me. Ripeteva sempre che accettava la sofferenza come dono di Dio. Allora mi convinsi che era mezzo pazzo. Una volta gli dissi: Questo tuo Signore a me non piace; non è un Signore buono, come tu dici. Lui mi chiamò diavolo e mi cacciò. Poi mi mandò a chiamare e mi chiese scusa e – quando a Bari gli fu diagnosticato una delle forme più maligne di tumore polmonare feci scrivere ai medici la diagnosi di reumatismi – … mi disse: Non è questo che mi aspettavo. Si vede che il Signore non mi ha accontentato. Durante la mia Ordinazione sacerdotale gli ho chiesto una malattia che mi avesse inchiodato su di un letto, senza potermi più muovere. Pensai tra me e mi convinsi che era stato servito in genere, numero e caso, e che era del tutto pazzo… Spesso mi diceva che la sofferenza è la prova che il Signore ci ama… e che anche il suo S. Francesco ripeteva spesso: tanto è il bene che mi aspetto che ogni pena mi è diletto. E io dicevo nella mia mente che anche san Francesco doveva essere pazzo. Non è vero, come qualcuno aveva insinuato, che per calmare la sofferenza ascoltasse musica sinfonica. Nella camera non aveva alcun apparecchio: quando c’ero io, la facevamo noi la sinfonia”.
Ogni giorno desiderò la celebrazione dell’Eucaristia nella sua camera da letto, non solo per poter usufruire della Comunione, ma soprattutto per incunearsi nel dramma pasquale del Cristo, per mescolare il suo dolore con quello della divina Vittima. Ogni giorno, assieme a Gesù, saliva e si coricava sulla stessa croce.
Durante le tregue sempre più brevi che gli concedevano gli attacchi sempre più frequenti, Mons. Castrillo recitava continuamente il Rosario, o alternandosi con Suor Irene o da solo, sillabando appena le Ave Maria con il movimento impercettibile delle labbra. Si spense contento il 16 ottobre 1955: “Andrò a vederLa un dì…”.
La sua spoglia, esposta per tre giorni in cattedrale, fu venerata come la preziosa reliquia di un santo; e a mala pena fu risparmiato il suo abito non già dal fanatismo del popolo, ma dal grande amore di preti e di professionisti che già gli avevano tagliuzzato il cordiglio e alcune ciocche di capelli.
La sua permanenza nella città di S. Marco Argentano era durata ventuno mesi, tredici dei quali trascorsi nel letto. Il brevissimo tempo in quel luogo avrebbe già, a quasi trent’anni di distanza, fatto perdere o almeno affievolire la memoria perfino del più operoso vescovo. Lui, invece, è ancora ricordato con commossi e particolareggiati ricordi dai preti e dai religiosi che lo frequentarono. Anche in questo egli splende come modello di pastore che anima e precede il suo gregge nel mistero eucaristico della comunione e della comunità. Il messaggio della riconciliazione e della comunione, continua ad irradiarsi dalla sua tomba, venerata nella monumentale cripta normanna della cattedrale di S. Marco Argentano da tutti coloro che sono in fiduciosa attesa che la suprema autorità della Chiesa proponga all’umanità P. Agostino come beato prima e santo poi della Chiesa Universale.