L’omelia di mons. Stefano Rega per la Domenica delle Palme


Carissimi, ogni anno la liturgia della Parola ci immette nel cuore della Settimana Santa, attraverso il racconto dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme, acclamato dalle folle come il “benedetto che viene nel nome del Signore”. Tutti conosciamo l’inconsistenza di tale esultanza; gli “Osanna” di gioia si tramuteranno, di lì a breve, in grida di ingiurie e di condanna, il “benedetto nel nome del Signore” diventerà “maledetto che penderà dal legno”. Il passaggio dalla gioia dell’accoglienza al rifiuto dell’abbandono non si farà attendere a lungo, persino dai suoi discepoli, i quali, per primi lasceranno Gesù, solo nella sua desolante condanna a morte. L’intenso racconto della Passione di Gesù secondo Marco ha riempito il nostro cuore di sentimenti ed emozioni che devono essere meditati. La violenza che traspare dal racconto evangelico non può lasciarci inalterati e indifferenti; non possiamo evitare di prendere una posizione, conformandoci comodamente a Ponzio Pilato che dinanzi alla cruda verità dell’uomo-Dio, se ne lava le mani, pensando bene di non compromettere il suo potere facendo giustizia ad un uomo ingiustamente condannato. La Passione non si legge alla stregua di un racconto di cronaca nera, svenduta a buon mercato su un giornale da sfogliare, leggere e gettare via; quella di Gesù è una passione viva; essa, infatti, si continua a leggere nella storia di tutti noi, si ripropone nelle scomode vite di chi soffre ingiustizie, si ritrova tra le piaghe di uomini




e donne che oggi soffrono a causa della guerra, della fame, dello sfruttamento e dei soprusi. Una possibile chiave di lettura che ci aiuta a leggere la Passione è l’alternarsi tra la violenza inaudita e il perdono disarmante, tra le tenebre del male e la luce dell’amore. Marco dipinge il quadro della Passione con il chiaroscuro della lotta atavica tra il bene e il male. Ai nostri occhi sembra materializzarsi un dipinto del Caravaggio, dove il gioco di luce e ombre è significativamente accentuato per dimostrare che la storia della vicenda umana si compendia nel grande mistero di una lotta in cui bene e male, si contendono l’unico spazio per affermarsi nel cuore dell’uomo. Ripercorriamo insieme il cammino doloroso di Gesù, cercando di passare in rassegna i volti e le vite di quella Passione unica che ha cambiato per sempre le sorti della storia. Il primo volto che incrociamo è quello di Maria di Betania, nel cui gesto di lavare i piedi a Gesù e di cospargerli con unguento profumato, afferma una duplice profezia: il Maestro sarà colui il quale si cingerà il grembiule e laverà i piedi dei suoi discepoli, lasciandogli il profumo del perdono e la testimonianza del servizio; l’unguento profumato annuncia in anticipo una sepoltura che, tuttavia, non darà spazio alla corruzione del corpo. Quello di Maria di Betania è il volto della tenerezza e della compassione, capace di donare speranza e conforto; volto coraggioso e profetico, caparbio per non ritrarsi dinanzi alle accuse e alle ingiurie dei presenti. Il volto di una donna che sfida la pubblica derisione pur di non sottrarsi all’incontro con l’Amato. La non accoglienza dell’amore è mostrata dal volto triste del traditore Giuda. Egli rappresenta l’emblema dell’uomo che vuole fare i conti persino con Dio, attribuendogli una somma da dover gestire per un personale profitto. 30 monete è il prezzo del Figlio di Dio, attribuitogli da un suo discepolo. Quanto è triste pensare che nell’angolo del cuore, possa celarsi il silenzioso desiderio del tradimento. Ne facciamo anche noi esperienza, quando tradiamo e quando veniamo traditi. Nella triste vicenda di Giuda proviamo a ricordarci di tutte quelle volte in cui siamo stati causa di tradimento per imparare ad arginare le occasioni per poter ricavare 30 monete di argento che non potranno mai equiparare il prezzo dell’amore. La tragica fine dell’Iscariota ci incoraggi a non disperare mai del perdono di Dio, il quale offrirà sempre una possibilità di rimediare agli errori, mostrandoci il volto amorevole e benevolo del Padre misericordioso. Compare il volto di Pietro, spavaldo nella sua promessa di seguire Gesù fino alla morte; promessa subito rinnegata dal sonno, che lo sovrasta nel Getsemani, e soprattutto dalla paura di essere identificato, nel cortile del sommo sacerdote. E di seguito, come un sogno sempre più tormentato, entrano in scena i volti duri e sdegnati dei membri del sinedrio, con le loro accuse e il grande gesto di scandalo del sommo sacerdote, la lacerazione delle vesti, che dà il segnale di partenza agli sputi e alle percosse. Di qui in avanti la sorte di Gesù è in caduta libera: i volti che incrocerà sono impastati di indifferenza, mediocrità e vigliaccheria, come quello di Pilato che lo consegna lavandosene le mani; di odio, come quello inferocito della folla che urla il suo favore per Barabba; volti spietati dei soldati che lo picchiano e deridono, dei ladroni crocifissi con lui che lo insultano, dei capi giunti fino al Golgota per sfidarlo a scendere dalla croce e per occuparsi poi di sigillare il sepolcro di Gesù ponendo i soldati a guardia e mettere la parola “fine” a quella storia strana di un ebreo così diverso dagli altri.
Nell’oceano di odio e di violenza, spuntano quasi inosservati, alcuni raggi di speranza. Così si fa spazio il volto del Cireneo, costretto a portare con Gesù il pesante legno della croce. Quella croce non sarà stata così pesante, come poteva immaginare Simone di Cirene perché il peso maggiore lo portava il Maestro. In Simone di Cirene mi piace leggere la nostra vicenda quando si imbatte con la sofferenza: non vorremo mai attraversarla, non vorremmo sostenere il legno della croce; è faticoso salire sull’erta del Golgota; tuttavia, sappiamo che, come per il Cireneo, c’è Gesù, che si assume la responsabilità di starci accanto e di sostenere il peso maggiore. Sotto la croce gettano luce i volti delle donne, tra le quali, si erge a testimonianza, il volto di Maria, l’Addolorata che piange per i peccati dell’uomo, addossati da Gesù e appesi al legno della croce. Il volto tenero di Maria che piange per il figlio morente, si ripercuote nel dolore delle madri che piangono per i figli morti, per quelli malati, e per quelli che si perdono nelle vie buie del mondo. Incontriamo il volto del Centurione, con la sua ammirevole fede che lo porta a riconoscere nel crocifisso il Figlio di Dio. A questo punto manca solo un volto, il più importante di tutti, a cui Gesù aveva dedicato l’intera esistenza; quello di cui il Salmista dice: “Il tuo volto, Signore, io cerco: non nascondermi il tuo volto” (Sal 26,8-9). Dov’è il volto più importante, il volto del Padre? Nell’ora di preghiera, per due volte Gesù aveva espresso al Padre il suo timore davanti al calice che stava per bere; e per due volte aveva aggiunto: “Sia fatta la tua volontà”. Il volto del Padre si mostrerà, in un’esplosione di vita inaspettata con la risurrezione. Così Dio esaudirà la richiesta di Gesù nel Getsemani di lasciarlo in vita. Il Padre accoglie il grido del Figlio sul Golgota, il lamento dell’abbandono, ma non lo esaudisce come Gesù avrebbe immaginato, evitandogli il dono supremo della vita. Se lo avesse esaudito a quel modo, Gesù sarebbe uno scampato e non un redentore; si sarebbe salvato la pelle, ma non avrebbe salvato i fratelli; avrebbe schivato per il momento la morte, ma non l’avrebbe visitata e svuotata dal di dentro. La preghiera del Figlio entra nel cuore del Padre, che apparentemente non la accoglie, lasciandolo morire, ma in realtà la esaudisce in una maniera potente, piena: gli rende “per sempre” quella vita che Gesù chiedeva “per il momento”. La risurrezione di Gesù svela il volto tenero del Padre, che sul Golgota sembrava assente, ma che in realtà, soffrendo con il Figlio e con noi, stava disponendo il dono di una vita che non finisce. Anche noi, scambiandoci il ramoscello d’olivo in segno di pace, dovremo pensare di poter asciugare una lacrima alle persone a noi vicine; dovremo pensare che il tempo dedicato agli altri, anche se con difficoltà, è un tempo buono; dovremo pensare di sostenere le incertezze dei bisognosi. Quel ramoscello d’olivo sarà il segno della nostra compassione, capace di guarire dall’interno le fatiche, i dolori, le sofferenze, ma anche di ridare fiducia e speranza a chi ci sta accanto. Chiediamo al Signore all’inizio di questa Settimana Santa di donarci la grazia di vivere con lui, di accompagnarlo con la preghiera e la meditazione della Parola di Dio, nella scelta di piccoli gesti di amore. Possiamo anche noi, come la donna di Betania, versare un unguento profumato sulle ferite di chi ha bisogno, perché questo profumo insegni pietà, compassione, benevolenza e amore. Ritroviamoci insieme il giovedì santo, il venerdì e il giorno di Pasqua, perché possiamo imparare l’amore da colui che soffrì per noi, non rinunciando ad amarci fino alla fine.

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